Dopo il furto della propria bicicletta, mezzo che gli permetteva di lavorare, un uomo vaga per la città con tutta la famiglia sperando di poterla ritrovare. Preso dalla disperazione non gli resta che rubarne una a sua volta ma viene bloccato dalla polizia...
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Nella Roma dell'immediato dopoguerra, un uomo riesce a trovare lavoro come attacchino dopo aver guadagnato abbastanza da procurarsi una bicicletta, oggetto indispensabile allo scopo. Purtroppo, la bicicletta gli viene rubata il primo giorno e all'uomo non resta che vagare per la città insieme al figlioletto sperando di ritrovarla... Il cinema neorealista è uno di quelli che non hanno bisogno di presentazioni, in quanto le sue qualità tipiche sono arcinote e immediatamente riconoscibili; si tratta anche di un genere che, in pochi momenti, è in grado di dire più di quanto un qualsiasi altro film di qualsiasi altro genere potrebbe comunicare in due ore e mezza. Le immagini, le facce, gli sguardi, sono sufficienti a immergere lo spettatore in una realtà deprimente, miserevole, ancora più tangibile considerando che essa è davvero esistita, e tutto questo senza l'aiuto di tecniche o trucchi di alcun tipo. Con "Ladri di biciclette", Vittorio de Sica porta questa importante pagina del cinema italiano e mondiale alla perfezione, nella quintessenza di un certo modo di fare film che all'epoca rappresentava i traumi ancora vivi e presenti nella coscienza collettiva e alle condizioni tutt'altro che favorevoli di una società appena uscita dalla guerra sconfitta e sgretolata e ancora in pieno sfacelo, ben lontana dalla ripresa che arriverà solo alla fine del decennio successivo. Parlando da spettatore per il quale questo Cinema non è esattamente il genere solito, posso dire che tutto funziona perfettamente: i personaggi in sé, le loro relazioni nel corso della vicenda e tutto lo svolgersi della trama trasudano un'autenticità e una naturalezza che nessuna finzione è in grado di ricreare, i volti "sconosciuti" presi per interpretare le parti funzionano meglio del migliore attore professionista visto che, a conti fatti, si limitano a interpretare sé stessi; è proprio il rapporto fra l'uomo e il figlio a dare al film quella marcia in più che lo rende, per quanto mi riguarda, di un livello lievemente (ma proprio di poco) migliore delle pellicole di Rossellini. E le musiche del maestro Alessandro Cicognini sono azzeccate, anche se in alcuni punti si ha la sensazione che stia un po' esagerando; ma visto che funziona, non è poi un difetto così grande. L'unico neo che potrei trovare, sebbene si tratti di un'opinione strettamente personale, è che il film forse funziona anche troppo bene: come ho già accennato, bastano poche immagini al lungometraggio per dire ciò che ha da dire, e questo rende la trama da sola forse insufficiente a sostenere una lunga durata; per questo, anche se limitata a solo un'ora e mezza, la pellicola da comunque una certa sensazione di dilatato in cui si nota una sostanziale assenza di ritmo. Ma in questo caso, è un fatto che non disturba molto: questo è un quadro, uno spaccato di realtà e non un dramma solidamente strutturato in tre atti, dove alla fine tutto viene risolto in un modo o in un altro, perciò la mancanza di ritmo e il formato episodico hanno un loro perché, così come il perfetto finale aperto.
Padre e figlio, il primo appena sfuggito all'arresto e al linciaggio, ancora senza la loro bicicletta, svaniscono tra la folla in bilico fra la disperazione e e una flebile, incerta speranza che tuttavia persiste.
Inutile perciò sprecare altre parole sull'opera magna di de Sica, visto che già sono state dette e si limiterebbero ad esprimere quello che è già ovvio di suo, della perfezione formale e contenutistica del film e dell'importanza capitale dei valori e delle riflessioni che si porta dietro.